Gone Baby Gone di Ben Affleck [Usa, 2007]

Lavorando sul romanzo di Dennis Lehane “La Casa Buia”, Affleck firma un triller investigativo che segna il suo esordio cinematografico da regista.

E chi lo avrebbe mai detto, vero? Che Ben Affleck, il belloccio e monolitico ragazzone di Boston, che a fine millennio festeggiava assieme al sodale Matt Damon il suo Oscar per la sceneggiatura di Will Hunting – Genio Ribelle firmato da Gus Van Sant, potesse, un decennio dopo firmare una delle opere prime più convincenti degli ultimi 30 anni di cinema yankee. Perché questo Affleck crea ed ottiene, lavorando sul romanzo di Dennis Lehane, (lo stesso di “Mystic River”) intitolato “La Casa Buia” e riservando a suo fratello Casey il ruolo dell’investigatore privato Patrick Kenzie. Gone Baby Gone è un film di genere, il triller investigativo, che da troppo tempo dimentico delle proprie radici, che affondano nel torbido del noir. Affleck (Ben) questo rifugge, e costruisce un film dall’impianto solidissimo, che delimita il terreno sul quale il suo occhio si muove ed indaga, ricercando verità che tanto e troppo spesso sarebbe meglio tenere celate, non fosse altro per tenere a posto la coscienza.

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Boston, la sua città. Una bambina è stata rapita. La polizia indaga, la madre è una tossica perdigiorno, gli zii paiono maggiormente interessati a salvarla. Ingaggiano Kenzie affinché collabori con la polizia per ritrovarla. Il detective e gli sbirri si studiano, si fiutano come cagnacci, per poi cercare di collaborare. Una storiaccia, tutto marcio, le persone come le cose, come le case ove questa gente vive. Il legno delle case americane pare marcire a passo doppio del normale, come se il male generato dall’uomo incancrenisse anche le cose, il cielo. Tutto, eccetto i bambini. Questi angeli che non chiedono quasi il perché del male che li circonda e, troppo spesso, li prende con sé.

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Gone Baby Gone è un film totalizzante, non cerca di piacere furbescamente, lo fa con la naturalezza di qualcosa che si attacca addosso, qualcosa simile alla bellezza ed al disgusto. Non è un film che cerca di stabilire nuove distanze da ciò che lo ha preceduto, tutt’altro, cerca gli echi di quei film che lo hanno ispirato, eredità e rimpianto. Mischiate assieme, a costruire un gusto che compensa la scarsa originalità con l’aderenza totale allo spirito che lo guida. Marca i contorni di ciò che è giusto fare, anche quando si è consapevoli di andare incontro a dolore e rimpianto. La strada facile è sempre più affollata di quella giusta. Un assioma incontrovertibile, nel quale l’essere umano è in grado di perdersi come in un bicchiere d’acqua. Resta il gusto di un film cupo, in una città che pare respingere i propri figli e non riconoscere il buono ed il giusto quando questi gli si para dinanzi.

Marcello Papaleo

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